
50 anni di mafia: la guerra che lo Stato non ha voluto vincere

50 anni di mafia: la guerra che lo Stato non ha voluto vincere
Magistrati, avvocati e parenti delle vittime di mafia riassumono la lotta boss e colletti bianchi dalla prima Repubblica ad oggi e denunciano le misure del governo
Un grande appello alla resistenza ha accompagnato la presentazione del libro di Saverio Lodato, 50 anni di mafia, tenutosi al Teatro Golden di Palermo.
Un evento organizzato dall’Associazione culturale Falcone e Borsellino che ha permesso di evidenziare la drammatica deriva di un governo del nostro Paese, che non solo ha smesso di combattere la criminalità organizzata, ma ha addirittura messo al primo posto la lotta contro quella magistratura che ha svelato i rapporti indicibili tra le organizzazioni criminali e gli apparati del potere.
Grandi poteri occulti vedono oggi l’attuazione dell’attacco definitivo contro la nostra Costituzione e di conseguenza, contro tutto l’apparato democratico di questo Paese.
A denunciarlo è stato il sostituto procuratore nazionale antimafia ed ex consigliere togato del Csm Nino di Matteo che ha evidenziato i gravi rischi dati dalle recenti delle riforme della giustizia, in particolare della separazione delle carriere, un progetto che affonda le sue radici nel "piano di rinascita democratica di Licio Gelli", fondatore della loggia Massonica P2.
“Non dobbiamo fare l’errore di considerare le singole riforme, le riforme già approvate, quelle in via di approvazione l’una distinta dalle altre: separazione delle carriere, modifica al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, limitazione del reato di traffico di influenze, limitazioni della durata delle intercettazioni divieto di pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare. Tutto deve essere visto con una visione d’insieme se si vuole capire quello che sta accadendo, perché tutto risponde ad un disegno unico che affonda le radici nel piano di rinascita democratica della P2, affonda le radici nei progetti di riforma del primo governo Berlusconi”, ha affermato Di Matteo, secondo cui, se analizziamo questo insieme delle riforme ci accorgiamo che si muovono tutte nella direzione del consolidamento di uno schema di protezione nei confronti del potere, dei colletti bianchi invischiati con il mondo criminale.
In particolare, quella della separazione delle carriere rappresenta una riforma, per certi versi inutile, per altri molto molto pericolosa” che parti da presupposti totalmente falsi:
Il primo è “quella dell’appiattimento dei giudici nei confronti dei pubblici ministeri, c’è una percentuale altissima di decisioni dei giudici che vanno nel verso contrario di quelle dei pubblici ministeri.
Un altro presupposto falso è l’interesse popolare. “se c’è un interesse dei cittadini, di quelli perbene è quello di rendere più veloci i processi. In questa riforma non c’è una norma che possa renderli più veloci. Tanto è l’interesse popolare che vi vogliono far credere che 2 anni fa, quando si andò a votare per votare sul referendum sulla giustizia e c’era anche il referendum abrogativo dell’unicità delle carriere, meno del 20% degli italiani andò a votare. La verità è che in tutti i paesi in cui vige un regime di separazione delle carriere, il pubblico ministero viene sottoposto dall’esecutivo e questo è un pericolo per i cittadini”.
Di Matteo, alla fine del suo intervento ha poi rivolto un messaggio ai giovani, sottolineando che hanno solo un disperato bisogno “di ritrovare negli adulti, nella politica, nelle istituzioni esempi credibili, poiché “la responsabilità del disagio dei giovani” è delle generazioni adulte che hanno gestito e continuano a gestire il potere.
Ha poi evidenziato la pericolosa deriva del nostro Paese verso la militarizzazione. “Stiamo lasciando alle giovani generazioni un mondo in guerra, un mondo in cui cresce a dismisura il dislivello tra i ricchi e i poveri, una vera e propria dittatura dei ricchi.” ha affermato, accusando le nostre istituzioni di aver rinnegato il ripudio della guerra sancito dalla Costituzione.
“Un paese che fa delle esportazioni delle armi da guerra pesanti una delle voci più floride della sua economia con un aumento del 138% delle esportazioni negli ultimi quattro anni. Un Paese che non ha mosso concretamente un dito per cercare di frenare un vero e proprio genocidio del popolo palestinese”.
Concludendo, Di Matteo ha esortato a resistere e a coltivare la capacità di indignarsi, ribellandosi “con ogni strumento non violento alla continua e sempre più dilagante mortificazione dei principi di uguaglianza, di pace, di libera determinazione dei popoli, di giustizia sociale, di tutela delle minoranze.”
Roberto Scarpinato ripercorre la storia della borghesia mafiosa
Sono trascorsi 35 anni dalla prima edizione “ 10 anni di mafia”, nel corso dei quali è successo di tutto e di più. Eppure nonostante la moltitudine di eventi che si sono susseguiti, come la fine della prima Repubblica; le stragi del ‘92 e ‘93; i grandi processi e il mutamento del quadro geopolitico internazionale, “la mafia è sempre viva, vegeta, gode di ottima salute ed ha uno splendido futuro”. Con queste parole ha iniziato il suo intervento l’ex magistrato, oggi senatore del Movimento 5 stelle, Roberto Scarpinato.
La storia della mafia, secondo Scarpinato, si intreccia perfettamente con quella del potere. Dall’unità d’Italia fino ai giorni nostri,“il sistema di potere mafioso è una componente del sistema di potere nazionale e gioca da sempre un ruolo determinante negli equilibri politici nazionali”, sostiene l’ex magistrato. Di fatto si tratta di “cervello borghese e lupara proletaria”, ma da sempre, il potere nel sistema mafioso è rimasto nelle mani della componente borghese, che si è servita del metodo mafioso per garantirsi privilegi e denaro e senza il benestare della quale, nessuno avrebbe mai potuto governare.
Dunque nel tempo è mutata la sua composizione, ma non il potere politico. Inizialmente costituita dai latifondisti e agrari, questa classe dirigente ha utilizzato la violenza mafiosa per mantenere il controllo, soprattutto nelle campagne siciliane. La strage del 1° maggio 1947 è un esempio lampante di come la borghesia mafiosa abbia ostacolato le riforme agrarie e intimidito i politici. Con il passaggio all'economia speculativa negli anni '60 e '70, nuovi personaggi, come Ciancimino e Lima, prendono il posto dei latifondisti, ma il potere mafioso resta intatto.
Nel secondo dopoguerra, la Sicilia diventa un'importante base elettorale per i partiti di governo, in particolare per la Democrazia Cristiana. Dopo le stragi del 1992 e la fine della Prima Repubblica, il blocco sociale della borghesia mafiosa si sposta nel partito Forza Italia, continuando a mantenere il suo potere e la sua influenza sugli equilibri politici nazionali.
“ Chi sono i nuovi campioni della borghesia mafiosa ? Senatore Marcello Dell'Utri, cofondatore del partito di Forza Italia, in stretto collegamento dagli anni settanta con i massimi vertici della mafia militare e anello di congiunzione consiglio Berlusconi, altro cofondatore di Forza Italia, esponente della P2. Dell'Utri è il nuovo simbolo della borghesia mafiosa e dei suoi rapporti con la mafia che gestisce i traffici di stupefacenti e dell'estorsione”, afferma Scarpinato e prosegue facendo nomi di condannati con sentenza definitiva per concorso esterno, “il senatore Antonio D'alì sottosegretario al Ministero dell’economia , protettore di Matteo Messina Denaro e di altri big della mafia, quello che faceva trasferire i prefetti e i poliziotti che davano fastidio ai mafiosi. Nicola Cosentino, sottosegretario al Ministero dell'Economia, referente nazionale della Camorra” e ancora “Amadeo Matacena, parlamentare appartenente a una storica famiglia di armatori, punto di riferimento della 'Ndrangheta. Potrei continuare per una mezz'ora con gli esempi, ma penso che questi esempi bastino”. Pur essendo stati condannati per reati legati alla criminalità organizzata, sono ancora personaggi influenti grazie ai loro legami con potenti blocchi sociali e al consenso che portano. Come in passato, questa borghesia mafiosa continua a influenzare la politica italiana. “La maggioranza di governo di oggi si regge, come ai tempi dell'unità d'Italia, sui voti di questa componente della classe dirigente, una componente che va a braccetto con altre componenti reazionarie della stessa classe dirigente. Hanno tutte un unico comune denominatore, odiano la Costituzione, la vivono come un corpo estraneo e il loro sogno è liberarsene in tutti i modi possibili” sostiene il senatore. L’attuale governo, infatti, favorisce la corruzione e gli affari illeciti, smantellando le regole e i controlli e facendo proposte di riforma della Costituzione, aprendo varchi per la mafia nel settore degli appalti.
Non solo, l'abolizione o il depotenziamento di reati come l'abuso d'ufficio e il traffico di influenze, che in passato venivano utilizzati per combattere la corruzione tra i colletti bianchi, ha permesso a politici e imprenditori di aggirare i controlli e di compiere atti illeciti senza rischiare pene. Ad esempio, oggi i sindaci possono affidare appalti senza gara pubblica e senza rischi penali in cambio di voti.
Separazione delle carriere e riforma alla legge sull’Ergastolo ostativo
In quanto all’omertà, i mafiosi non sono nulla al cospetto dei colletti bianchi e l’unico metodo infallibile per sfondare questo muro che caratterizza il loro mondo, sono le intercettazioni. Così “ approvano a getto continuo riforme che castrano i poteri d’indagine della magistratura sui reati dei colletti bianchi". Un continuo attacco a quella magistratura che“in questi ultimi decenni ha osato l'inosabile, processare gli intoccabili”.
Un’altra vergogna tutta italiana è la riforma alla legge sull’ergastolo ostativo. Approvata nel 2022, ha permesso a molti boss di respirare il profumo della libertà grazie a permessi premio concessi senza che questi abbiano collaborato con la giustizia e quindi, premiati anche se rimasti fedeli alla cultura dell’omertà, come se il loro comportamento in carcere fosse sufficiente a considerarsi rieducati.
Del resto, non ci si può aspettare molto da un paese che ha dichiarato il lutto nazionale di una settimana per Silvio Berlusconi che per anni ha letteralmente finanziato la mafia.
La credibilità dello Stato è messa in discussione a causa dei volti che la rappresentano ed è stato palese il cambio di rotta, quando quei volti furono quelli di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Stiamo tornando al passato e oggi più che mai è necessario resistere e salvare la nostra Costituzione perché “ Fino a quando quando questa Costituzione resterà in vita, sarà sempre possibile impugnare l'ennesima legge vergogna dinanzi alla Corte Costituzionale e farla annullare. È come se in un palazzo sfigurassero la facciata, spostano i tramezzi, ma le fondamenta, i muri portanti restano
in piedi e la casa comune resta. Fino a quando questa Costituzione sarà in vita, sapremo da dove
ricominciare”, conclude Roberto Scarpinato.
Luigi Li Gotti denuncia: si tenta di riscrivere la storia dello Stato-mafia
Sempre sul tema degli strumenti di contrasto alla mafia e ai colletti bianchi, grande spazio è stato dato in conferenza alla questione dei pentiti di mafia. L’istituto dei collaboratori di giustizia, organo inventato da Falcone e Borsellino come arma per distruggere Cosa nostra e i suoi alleati, vuole infatti essere smantellato dal governo Meloni. Questo organo garantisce l’acquisizione di informazioni che derivano direttamente da ex mafiosi, un tempo appartenenti alle organizzazioni criminali, che decidono di collaborare con lo Stato. Grazie a questo istituto si è riusciti a dare un volto alla mafia e come sosteneva Giovanni Falcone, le collaborazioni con la giustizia si configuravano come uno strumento fondamentale ed efficace su cui lo stato avrebbe dovuto investire.
“ Una volta il nostro paese veniva considerato la culla del diritto, oggi invece sta accadendo qualcosa di completamente nuovo” afferma Luigi Li Gotti (legale dei più importanti pentiti di Cosa nostra).“Oggi la lotta al crimine non è una lotta ideologica , oggi è una lotta in nome del diritto”, infatti oggi il crimine è qualcosa di esterno alla società civile, è una metastasi che l’ha infettata e chi combatte la mafia lo fa in nome della legge e non in nome di un’ideologia. In un mondo al contrario come il nostro, il colpevole è chi combatte la mafia, si sta cercando di riscrivere la storia, e per farlo, afferma l’avvocato, “è necessario eliminare il pensiero, l’attività, il valore , l’impegno e la costanza di chi la mafia l’ha combattuta, l’obiettivo è quello di distruggerli”.
Li Gotti continua il suo intervento parlando della storia di Luigi Ilardo, che divenne un infiltrato in Cosa Nostra al servizio dei carabinieri del R.O.S. Ilardo rivelò scioccanti legami tra la mafia, politica e i servizi segreti portando all’arresto di numerosi latitanti.
Il 10 maggio del 1996,
presumibilmente per una soffiata, tradito dalle istituzioni che dovevano proteggerlo, come ricompensa per il suo servizio trovò la morte, per ordine di Piddu Madonia, pochi giorni prima di entrare ufficialmente nel programma di protezione.
” Il fascicolo è ancora aperto eppure non se ne sa nulla “ afferma Li Gotti. “Luigi Ilardo aveva portato le forze dell’ordine a catturare Provenzano, ci sono anche 27 fotografie in cui viene preso, messo su una camionetta e portato da Provenzano” venne così individuato il covo. Il 31 ottobre del 1995 nel casolare di campagna dove c’erano Provenzano, Salvatore Ferro, Lorenzo Vaccaro, Giovanni Napoli e Nicola La Barbera, l’infiltrato si aspettava un blitz che non è avvenuto.
Solo quattro persone erano a conoscenza di ciò che stava accadendo: Michele Riccio, tenente colonnello che gestì l'infiltrazione di Luigi Ilardo, l’allora maggiore Mauro Obinu, Sergio De Caprio e indovinate un po’, Mario Mori, allora colonnello. Lo stesso Mori per cui sospese il dibattito la Colosimo e per cui si fece un’ovazione.
Dunque la cattura di Provenzano non avvenne e questo “ per evitare di uccidere le pecore che pascolavano“ afferma Li Gotti.
“ Per 6 anni lo Stato sapeva che lì c’era Bernardo Provenzano, ma non lo ha catturato” afferma l’avvocato, “com’e possibile che dopo l’arresto di Totò Riina, il capo della mafia non venga catturato se dietro non c’è la trattativa per non farlo catturare”.
Infine,Li gotti sottolinea l’importanza di impedire la riscrittura della storia perché “ ci vogliono levare quel poco di verità o quelle verità acquisite” e per questo motivo mettono sotto inchiesta due personalità protagoniste della lotta alla mafia come Scarpinato e De Raho per conflitto di interessi, quel conflitto di interessi che non dovrebbe esistere tra chi lotta per la verità e la giustizia contro la mafia e la commissione parlamentare antimafia che si suppone svolga lo stesso ruolo.
“Esiste un disegno di legge per escludere dalla commissione parlamentare antimafia Scarpinato e De Raho e questo è uno stato di diritto?!” asserisce Li Gotti, “c’è chi si vanta di aver scelto la strada della politica in onore del sacrificio di Paolo Borsellino” e non si vergogna di riempirsi la bocca e poi fare la guerra ai magistrati tentando di riscrivere i fatti. “La vera storia non vi interessa anzi vi fa paura”.
Saverio Lodato contro il tentativo di cancellare la storia
Verso la conclusione dell’evento è infine intervenuto il giornalista Saverio Lodato, che ha aperto una solenne riflessione: “Ho visto all'opera quei magistrati che oggi qualcuno vorrebbe portare sul banco degli accusati”.
Anche Lodato ha sottolineato con forza il tentativo in atto di cancellare la memoria e riscrivere la storia: “È vero, vogliono cancellare la memoria, vogliono cancellare la storia, la vogliono riscrivere, vogliono portare sul banco degli accusati, quelli che sono stati protagonisti di allora, di ieri e di oggi, ma hanno un problema: che noi ci siamo ancora. Non ce ne siamo andati e non abbiamo alcuna intenzione di togliere il disturbo”.
E quì torna in mente la vicenda di Chiara Colosimo, nominata presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, nonostante fosse già nota per le sue passate frequentazioni con esponenti dell'estrema destra, tra cui Luigi Ciavardini, condannato per la strage di Bologna. È stata accusata di aver gestito la Commissione in modo monotematico, concentrandosi esclusivamente sulla strage di Via D’Amelio e ignorando altre indagini rilevanti, come quelle sull'eversione nera nelle stragi di Capaci e Via D’Amelio spesso trattate con dovizia dal senatore Roberto Scarpinato.
Scarpinato ha presentato un memoriale di oltre 50 pagine, chiedendo audizioni e approfondimenti, ma il documento è stato sostanzialmente ignorato. Inoltre, Colosimo ha sollevato questioni di incompatibilità contro l’ex magistrato, cercando di escluderli dalla Commissione.
La situazione si è ulteriormente complicata quando Colosimo ha querelato per diffamazione lo stesso giornalista Lodato che ha citato i fatti sopra descritti in una trasmissione televisiva.
“Io e la Colosimo ci vedremo in tribunale, perché questo è il signo delle cause per diffamazione. Voglio soltanto dire che io in quarant'anni di carriera non ho ricevuto quelle per diffamazione, se non ricordo male, da nessuno”, ha detto Lodato, ricordando poi la presentazione della prima edizione del suo volume a Modena, evidenziando come il suo lavoro sia evoluto nel tempo: “Giovanni Falcone apprezzava un libro che si chiamava Dieci anni di mafia. Quel libro era ancora un libro sulla mafia. Andando avanti nella stesura dei successivi volumi, mi sono accorto che oggi è diventato un libro sul potere in Italia, che è una cosa ben più ampia e ben più larga del fenomeno mafioso come noi avevamo conosciuto”.
Il giornalista ha poi ripercorso un momento cruciale della sua ricerca: “Quando Giovanni Falcone, pochi giorni dopo l'attentato all’Addaura, mi rilascia un'intervista sulle ‘menti raffinatissime’, già comincio a capire che quel libro non si chiamerà più ‘Dieci anni di mafia’, ma potrebbe diventare ‘Dieci anni di mafia di potere in Italia’”.
Oggi, a distanza di cinquant’anni, Lodato afferma con certezza: “questo è diventato proprio quel libro. Non so se a Falcone piacerebbe ancora, ma certamente posso dire che lui, che era persona intelligente, capirebbe benissimo che la lotta alla mafia in Italia non si può più fare perché il governo, come primo punto della sua agenda politica, vuole fare la guerra ai magistrati”.
E aggiunge: “Le due cose non stanno insieme. E quando Giorgia Meloni ci viene a raccontare che lei è scesa in campo il giorno della morte di Paolo Borsellino, non ha capito che lei Borsellino non lo deve nominare, perché altrimenti rischia di rovinare il suo stesso desiderio di cancellare definitivamente la storia”. Concludendo, Lodato lancia un monito: “In Italia, fino a quando qualcuno potrà camminare liberamente e dire a un altro ‘Ti ricordi Giovanni Falcone? Ti ricordi Paolo Borsellino? Ti ricordi la Procura di Palermo?’, loro non avranno vinto”.
Borsellino e le Criticità della Commissione Antimafia nella ricerca della verità sulle stragi
Durante la conferenza è intervenuto online anche Salvatore Borsellino, fratello di Paolo Borsellino e fondatore delle Agende Rosse.
Borsellino evidenzia grandi criticità rispetto a quanto sta accadendo in Commissione Parlamentare Antimafia e la gestione delle indagini sulle stragi.
Il fratello di Paolo Borsellino critica l’approccio della Commissione, che isolando la strage di via D’amelio, tenta di spezzare il fil rouge, che la collega strettamente alle altre stragi: come quella di Capaci, dove perse la vita Giovanni Falcone e gli agenti di scorta, la strage dei Georgofili, quella a Firenze e quella a Milano vicino al Museo di arte moderna.”A mio avviso, queste stragi, sono una conseguenza diretta di quella trattativa che piuttosto che fermare le stragi, ha fatto invece pensare alla controparte mafiosa che la strategia stragista di cui erano gli esecutori piuttosto che gli artefici, pagasse e di conseguenza si doveva insistere su questa strategia-ndr” afferma Borsellino.
Il fondatore delle Agende Rosse sostiene, inoltre, che anche le stragi precedenti a quella di via D’amelio, come quella della stazione di Bologna, Piazza della Loggia e piazza Fontana, includendo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro con le rivendicazioni dell’organismo “falange armata“, “fanno parte di un unico disegno criminoso volto a sovvertire e a cambiare l'ordine del nostro Paese”, afferma.
Emerge il timore del fondatore delle agende rosse che, strumenti efficaci per combattere la criminalità organizzata, come il 41-bis e le leggi sul carcere duro, possano essere smantellate garantendo impunità a questi criminali, anche alla luce delle recenti scarcerazioni di mafiosi che non hanno mai collaborato con la giustizia.
Un tema cruciale riguarda l’agenda rossa e l'accelerazione che separò di soli 57 giorni, la morte di Giovanni Falcone da quella di Paolo Borsellino “ era in discussione in Parlamento una legge che non sarebbe passata, poi per assurdo i mafiosi fanno qualcosa che va contro il loro interesse, che è quello di commettere la strage e uccidere Paolo”, afferma il fratello del magistrato e sottolinea che, per effetto della strage, quel decreto, che mirava a combattere la mafia, ora in fase di smantellamento, fu approvato.
Fa notare che, se si analizzano i punti del manifesto della rinascita democratica della P2, si nota che molti di questi, stanno venendo realizzati con evidente accelerazione sotto l'attuale governo. L’agenda rossa, definita come una “ scatola nera” della strage e oggetto di scarsa indagine, sicuramente conterrebbe le risposte a molte domande sulle motivazioni che hanno spinto alla realizzazione delle stragi. Paolo Borsellino sapeva bene dell’esistenza di una trattativa ed era in possesso di informazioni su temi cruciali su cui stava cercando di far luce, tra cui la presenza della mafia nella massoneria e il coinvolgimento dei servizi segreti. Salvatore Borsellino cita le dichiarazioni di testimoni come Gaspare Mutolo e Leonardo Messina, che hanno parlato della connessione tra mafia e politica. Inoltre, il giudice Borsellino stava indagando anche sulla strage di Capaci che in alcun modo può essere attribuita solo alla mafia in quanto vi è l’uso di tecnologie molto sofisticate. “Lo stesso Brusca dice che ha avuto l'impressione di non essere stato lui a premere quel telecomando che ha causato la strage, perché sicuramente non c'era solo lui, sicuramente c'era un doppio comando per far saltare in aria quella macchina e uccidere Giovanni Falcone. Paolo, sono sicuro, stava indagando anche sui coinvolgimenti di organizzazioni, come Gladio, sulla realizzazione di quella strage”, afferma il fratello del magistrato.
Anche Salvatore Borsellino esprime disappunto sulla Commissione parlamentare antimafia che vuole riscrivere la storia e cancellare la responsabilità dell'eversione nera in tutte le stragi avvenute in Italia. Un tentativo, a suo avviso, favorito da quello stesso potere che ha portato a quelle stragi.
Il dolore del fratello del magistrato emerge nel sostenere che, le sue opinioni non convergano con quelle dei suoi familiari, fedeli invece alla linea della Procura di Caltanissetta, che secondo lui “è la maggiore causa dei depistaggi, di aver avallato i depistaggi che hanno allontanato il corso della giustizia veramente di anni. E che ancora oggi non indaga sull'agenda rossa” e evidenzia la continua presenza di segnali negativi come il rifiuto della sua costituzione di parte civile nel processo contro Vincenzo Scarantino, il ritardo del processo di via D’amelio, la mancanza di indagini sulla catena di comando che ha portato al depistaggio e il rischio che vada in prescrizione.
Parlando del libro di Saverio Lodato, il fratello di Paolo Borsellino ne apprezza le verità contenute e definisce l’autore “ una delle poche voci di verità che ci sono in questo Paese”, esprimendo il suo rammarico nel non poter leggere il continuo.
Da questa conferenza emerge l’importanza di fare memoria di tutti quegli eventi che hanno cambiato la storia del nostro paese. Sebbene appartengano al passato, è necessario mantenerne vivo il ricordo per poter fare una corretta analisi del presente. Le dinamiche, infatti, sono mutate nella forma ma non nella sostanza. Per questo è necessario resistere a tutti i costi, perché la speranza che la mafia possa essere vinta non sia un’utopia. Come sosteneva Giovanni Falcone "La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine".
foto © Paolo Bassani