
Donne, antimafia e giustizia: ruoli, problematiche e linguaggi dentro una società patriarcale
Donne, antimafia e giustizia: ruoli, problematiche e linguaggi dentro una società patriarcale
Donne, antimafia e giustizia. Questo è stato il titolo che abbiamo scelto per l’evento dello scorso 28 marzo, in cui abbiamo avuto l’opportunità di dialogare con Annamaria Picozzi, procuratrice aggiunta presso il tribunale di Palermo e con Graziella Proto, “direttora” della rivista antimafie, antifascista e femminista “Le Siciliane”.
L’esigenza di dibattere su questo tema è nata dalla consapevolezza che quando si parla di antimafia gli spazi di dibattito televisivi, giornalistici e pubblici sono occupati prevalentemente da uomini. Per questo abbiamo voluto dare voce a donne impegnate, che hanno dovuto affrontare tante difficoltà per affermarsi all’interno del movimento antimafia, a causa di una società ancora profondamente maschilista e patriarcale.
Le questioni affrontate sono state diverse. Siamo partite analizzando l’evoluzione del ruolo delle donne all’interno delle organizzazioni mafiose, approfondendo anche la loro scelta di collaborare con la giustizia. La dott.ssa Picozzi, che ha condotto il processo conclusosi con la prima condanna per associazione mafiosa nei confronti di Giusy Vitale, sorella dei boss di Partinico Leonardo e Vito Vitale, ha spiegato che “le donne per molti anni erano le vestali dell’ortodossia mafiosa, avevano un ruolo importante, perché crescevano i propri figli nel rispetto dei principi dell’organizzazione mafiosa: nella idolatria del proprio padre, nel rispetto della madre come di colei che non deve essere guardata né toccata da nessuno, che doveva restare a casa. Avevano quindi un ruolo importantissimo nell’educazione e nell’affiliazione, un ruolo ancillare, che a livello penalistico veniva punito con le fattispecie giuridiche del favoreggiamento, non si è mai ipotizzato un concorso esterno. È successo che dopo le stragi, con il rinforzarsi dell’attività antimafia di contrasto attraverso le numerosissime operazioni che avevano decapitato l’organizzazione ed il numero sempre più cospicuo di collaborazioni, Cosa nostra ha vissuto un momento di fibrillazione e ha fatto ricorso alle donne e ai minorenni”. Ed è quello che è successo all’interno della famiglia Vitale di Partinico: infatti, Giusy Vitale aveva un ruolo direttivo all’interno dell’organizzazione e come precisa la magistrata, era una donna “di grande determinazione, che ha tenuto le fila. Era una capa a tutti gli effetti, vedevo come comandava e cosa disponeva, incuteva anche molto timore ruolo direttivo, organizzativo”.
Siamo andate anche indietro nel tempo, ripercorrendo gli anni delle battaglie di Pippo Fava e il suo modo di fare giornalismo: coraggioso, etico, libero da ogni tipo di condizionamento. Un giornalismo che oggi manca come il pane, soprattutto in questo momento storico, in cui le recenti politiche governative mettono un freno alla libertà di espressione ed in cui l’isolamento e gli attacchi nei confronti del giornalismo d’inchiesta si aggravano sempre di più. Pippo Fava, come ha ricordato Graziella Proto, che per tanti anni si è formata ed ha lavorato al suo fianco, aveva “un concetto etico del giornalismo”. Per lui rappresentava “la forza essenziale della società, perché un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili. pretende il funzionamento dei servizi sociali. Tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo”.
Come ha raccontato la dott.ssa Proto, Fava “rischiò in prima persona, perché buttò sul tavolo gli intrallazzi all’interno di quello che anche Pio La Torre chiamava ‘sistema politico-affaristico-mafioso’. A Catania era politico-affaristico-mafioso-imprenditoriale, perché avevamo gli imprenditori più importanti, che prendevano tutto, si scambiavano favori, si andava a caccia insieme, a matrimoni, battesimi. Pippo Fava ha trovato questa palude, che era sotto gli occhi di tutti perché c’erano le fotografie. Erano coinvolti anche magistrati, che organizzavano convegni con i soldi degli imprenditori mafiosi. Le connivenze erano troppe e lui ha voluto rischiare, ha rischiato molto, le minacce c’erano. Alla fine, lo hanno ucciso e per anni ci sono stati depistaggi”.
È ormai pacifico che la mafia per sopravvivere e per accrescere il proprio potere abbia sempre avuto bisogno di rapporti con il mondo politico, istituzionale, finanziario ed imprenditoriale. In molti casi è stata agevolata, in altri supportata per trarne profitto, in altri ancora utilizzata come braccio esecutivo oppure accettata come attore con cui dialogare.
Questi intrecci sono stati anche alla base delle latitanze di molti capimafia, durate decenni, come quella di Matteo Messina Denaro. “È chiaro che una latitanza di così tanti anni non può realizzarsi se non attraverso il supporto e il contributo di tante professionalità”, ha spiegato la dott.ssa Picozzi, “che non sono solo quelle degli appartenenti alle forze dell’ordine, che ci sono state ed individuate nel tempo e mi riferisco alla latitanza di Riina e Provenzano, ma le professionalità sono di vario genere perché la persona ha bisogno di tanti servizi”. Ed ha poi precisato che i volti di quella che anche il procuratore capo di Palermo, Maurizio De Lucia, definì “borghesia mafiosa”, sono per esempio “il notaio, il funzionario di banca, il medico, l’imprenditore, cioè tutti quei soggetti che si mettono a disposizione, avendo un tornaconto in termini economici e di potere, che debbono svolgere delle attività che il latitante non può svolgere in prima persona. Quindi non c’è solo la copertura istituzionale per non farlo arrestare, ma c’è un’attività che garantisce la gestione e la continuità degli affari e che non è solo gestione di appartamenti ma molto di più”.
Durante l’incontro abbiamo ripercorso anche le storie di donne uccise dalla mafia, spesso non ricordate o ricordate solo se capita, come Lea Garofalo, Lia Pipitone, Graziella Campagna, Francesca Morvillo. Ma anche delle donne impegnate oggi nel fronte antimafia e delle difficoltà che hanno dovuto affrontare e superare. “Ho incontrato difficoltà enormi”, ci ha raccontato Graziella Proto, “’perché una rivista antimafia non la può dirigere una donna’, ma chi l’ha detto? Ancora c’è questa tendenza a credere che bisogna essere maschi per fare antimafia. Sul primo numero, mi è venuto automatico scrivere “direttore”, ma siccome la mia era una sfida sul terreno di chi può fare il direttore di un giornale lasciai “direttore”. Negli anni ho avuto tante incertezze, mi sentivo sempre piccola, come se mancasse e come se avessi rubato qualcosa. Ci ho messo anni, poi ad un certo punto ho cambiato in “direttora”, perché me lo sono conquistato”.
La dott.ssa Picozzi, condividendo questa riflessione, ha parlato a questo proposito della “’sindrome dell’impostore’ che abbiamo noi donne: cioè partiamo dal presupposto che qualcosa non ci spettasse ed è una patologia di cui ho sofferto per tantissimi anni anche io e non credo di essermene liberata, perché è dovuta a come il mondo ti legge, ti fa sentire che non sei mai abbastanza, che rispetto a quello che potrebbe fare un uomo tu arranchi e devi lavorare il doppio. Credo che per noi donne per tanti anni sarà ancora così. Dobbiamo lavorare il doppio perché gestiamo un carico mentale che riguarda altro rispetto al nostro lavoro, ma non è vero che dobbiamo lavorare il doppio per fare quello che fa un uomo nel nostro lavoro. Abbiamo esattamente le stesse potenzialità e la stessa determinazione”.