
Il Tradimento dello Stato: il declino delle collaborazioni con la giustizia nella lotta alla mafia

Il Tradimento dello Stato: il declino delle collaborazioni con la giustizia nella lotta alla mafia
Abbandonati a loro stessi dalle istituzioni e dalla politica i pentiti di mafia sono in pericolo e sempre meno boss decidono di collaborare
“Una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno mafioso”, “una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice”. Così una delle personalità più importanti e prestigiose della lotta alla mafia, Giovanni Falcone, commentava le dichiarazioni rese da Tommaso Buscetta durante il Maxiprocesso a Cosa nostra. I verbali di “Don Masino” hanno avuto un importante impatto mediatico, dando il via libera, negli anni a seguire, a una lunga serie di collaborazioni. Prima di allora, infatti, il fenomeno mafioso era conosciuto in maniera parziale e superficiale. Ed è soprattutto grazie ai collaboratori di giustizia che lo Stato è riuscito a dare un volto alla mafia, accedendo alle informazioni segrete delle organizzazioni criminali.
Le collaborazioni con la giustizia, secondo Falcone, si configuravano come uno strumento efficace e fondamentale su cui lo Stato avrebbe dovuto investire. Del resto, come detto, il passato criminale degli ex mafiosi, costituito da episodi di sangue, corruzioni, estorsioni e traffici illeciti di ogni tipo, è preziosissimo sul piano investigativo e giudiziario. Negli ultimi anni però, governi di ogni colore hanno via via smesso di impegnarsi a tutela dei pentiti. Normative e decreti del legislatore hanno ridimensionato, a poco a poco, quell’appoggio che Giovanni Falcone ed altri auspicavano lo Stato garantisse finalmente ai collaboratori di giustizia. Un atteggiamento consapevolmente pericoloso, sintomo di una politica complice e lassista, certamente non intenzionata a considerare la lotta alla mafia come una priorità.
Viene naturale, pertanto, chiedersi come mai le istituzioni, che dovrebbero incentivare i boss mafiosi a “saltare il fosso” hanno invece deciso di abbandonarli, danneggiando così la lotta alla criminalità organizzata?
I collaboratori, che aiutano i magistrati a smascherare le reti finanziarie e imprenditoriali su cui la mafia ormai da tempo ha spostato interamente i suoi affari, sono a conoscenza delle collusioni tra parti deviate della politica, della massoneria, della finanza e delle istituzioni in generale con le organizzazioni mafiose. Risultano quindi scomode e pericolose le possibili rivelazioni che potrebbero emergere da potenziali collaborazioni.
Negli ultimi anni l’istituto dei collaboratori di giustizia ha dovuto affrontare numerose problematiche ed ogni anno si riscontra l’abbandono del 25% dei membri dal programma di protezione. Lo sostiene Luca Tescaroli, procuratore capo di Prato ed ex procuratore aggiunto di Firenze (autore del libro “Pentiti. Storia, importanza e insidie del fenomeno dei collaboratori di giustizia”). Il procuratore evidenzia le criticità della legge sui collaboratori di giustizia. Criticità che sono sintomo dello stillicidio in corso contro questi ultimi per mano di politica e istituzioni. Questi ex mafiosi denunciano che dopo aver pagato il debito con la giustizia, ora si ritrovano senza un futuro certo, senza assistenza, senza casa o lavoro, e ingiustamente indebitati con l’Agenzia delle Entrate. Alcuni di loro, come vedremo, non hanno neppure ricevuto il cambio di generalità. Altri, invece, si sono visti togliere la scorta da un giorno all’altro. Il “progetto vita promesso dall Stato ai pentiti in cambio del loro contributo viene a decadere, infrangendosi in un muro di problematiche burocratiche ed economiche.
Di particolare rilievo è la modifica alla legge 82/91 e l’introduzione del decreto 161/2004. Come sostiene Tescaroli, “l'attuale normativa non assicura l'anonimato se un collaboratore viene fermato per strada e sottoposto a un normale controllo di polizia, come è già avvenuto. La verifica routinaria compiuta attraverso la consultazione della banca dati, tenuta presso il Ministero dell'Interno (sdi), fa emergere la sequela dei precedenti. Si pensi a cosa può accadere se un carabiniere si trova di fronte a un soggetto, che risulta aver commesso stragi, omicidi, estorsioni, che passeggia con persone e conoscenti ignare del suo passato: arrivo di pattuglie, trasferimento del collaboratore in ufficio di polizia per approfondire la situazione, disorientamento delle persone che si trovano in sua compagnia, compromissione della sua copertura, ecc...”. Episodi simili sono stati raccontati da molti collaboratori di giustizia.
Filippo Barreca, uno dei primi collaboratori di giustizia nella storia della Ndrangheta, nel '95 ricevette il cambio di generalità e aprì un’attività imprenditoriale, ma nel 2009 il Ministero dell'Interno cambiò il suo status e divulgò la sua vera identità, causando problemi alla sua attività e mettendo in pericolo la famiglia.
“La pubblicazione del mio vero nome ha compromesso la nostra sicurezza e bloccato i nostri progetti imprenditoriali. Ho dovuto affrontare numerose sfide e ostacoli a causa di questa divulgazione. Lo Stato deve innanzitutto rivedere la legislazione relativa ai collaboratori di giustizia per garantire una maggiore protezione. Dovrebbe anche fornire un adeguato sostegno a coloro che rischiano la propria vita per aiutare a debellare la criminalità organizzata” disse Barreca esprimendosi sull‘argomento.
Come Barreca altri pentiti hanno vissuto qualcosa di simile.
Poi c’è un aspetto economico di non poco conto sulla vicenda. Infatti, ai mafiosi che decidono di intraprendere il cammino della collaborazione con la giustizia, che dura in media 5 anni, salvo rari casi in cui i soggetti hanno un trascorso criminale particolarmente rilevante, spetta un compenso mensile di circa 1000 euro per i processi in cui depongono o sono imputati. Al termine della collaborazione, possono richiedere una “capitalizzazione”, somma in denaro erogata in un’unica soluzione, che dovrebbe servire per iniziare una nuova vita in una località sicura. Purtroppo, però, come anticipato, l’Agenzia delle Entrate confisca questo compenso subito dopo l’erogazione a causa dei numerosi debiti processuali e di mantenimento durante il periodo di detenzione che risultano a loro carico. Un cortocircuito burocratico e fiscale che incarta i pentiti e i loro familiari.
La somma elargita dallo Stato deve essere utilizzata per l’acquisto di un immobile che prima poteva essere intestato alle consorti dei suddetti collaboratori, oggi invece, non è più possibile farlo ed è obbligatorio intestare l’immobile direttamente a chi beneficia del programma di protezione, esponendo i pentiti ancora una volta a molti rischi. Primo tra tutti: quello di essere individuati.
Inoltre, i collaboratori dovrebbero beneficiare di un cambio di generalità, necessario ai fini del loro reinserimento sociale nel mondo esterno. Purtroppo, come spiega sempre il procuratore Tescaroli, ciò non sempre avviene e anche quando il cambio delle generalità è posto in essere, i collaboratori rischiano lo stesso di non riuscire a inserirsi in un contesto lavorativo, in quanto i dati del casellario giudiziario vengono trasferiti alla nuova identità. Quando il datore di lavoro assumerà il nuovo dipendente ammesso che lo assuma data l’età avanzata dei molti collaboratori), verrà a conoscenza dei reati precedentemente commessi e il rapporto di fiducia con quest’ultimo verrà quindi minato.
Altro aspetto allarmante riguarda i familiari dei pentiti. Pericoli e disagi li vivono anche costoro, che spesso si trovano ad affrontare periodi psicologicamente pesanti e le condizioni restrittive che pesano soprattutto sui minori, che vedranno ostacolato il normale percorso scolastico dal programma di protezione. I collaboratori e le loro famiglie rischiano di subire ritorsioni da parte delle organizzazioni mafiose. Perché la mafia, la storia insegna, non dimentica. Ricordiamo i casi di Francesco Marino Mannoia, di Tommaso Buscetta e di Salvatore Contorno. Ma anche il rapimento e l'uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di Mario Santo Di Matteo, sequestrato per impedire al padre di confessare ai magistrati.
Salvatore Cancemi, collaboratore di giustizia morto in carcere in circostanze mai del tutto chiarite, ricordava che il Capo dei Capi Totò Riina ordinava l’eliminazione “fino al ventesimo grado di parentela” dei famigliari di coloro che decidevano di collaborare. Il rischio, pertanto, c’è anche se sono passati diversi anni da quando la mafia ricopriva di sangue e polvere da sparo le strade.
Ricapitolando: il risultato di questa inerzia istituzionale, a cui si aggiungono i labirinti burocratici quotidiani, è duplice. Da un lato lo Stato sta esponendo i pentiti (e quindi le loro famiglie) al pericolo di ritorsioni da parte del clan a cui appartenevano. Dall’altro, si stanno disincentivando future collaborazioni con la giustizia. Perché è chiaro che, al momento, collaborare è sconveniente e soprattutto rischioso per un mafioso.
Da tempo i pentiti chiedono all’esecutivo un intervento urgente ma senza ottenere risposte concrete. Provvedimenti, invece, ne hanno ottenuti i mafiosi irriducibili all’ergastolo ostativo. Cioè quei boss rinchiusi in regime di carcere duro (41 bis) che non si sono mai pentiti, per i quali la legge ritiene non abbiano diritto, proprio in virtù della loro mancata collaborazione con lo Stato, ad alcun beneficio. Per costoro, negli ultimi anni, si è aperta una finestra di speranza. Il recente D.L. n. 162/2022, successivo alla sentenza della Consulta che sancisce l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, prevede la possibilità per i mafiosi detenuti per gravissimi reati la possibilità di ottenere benefici detentivi anche se non hanno mai confessato alcunché agli inquirenti. Basta la cosiddetta “buona condotta” e la “dissociazione” dall’organizzazione mafiosa. Un vero e proprio regalo ai boss più pericolosi che potranno così lasciare (anche se temporaneamente) le proprie celle e impartire ordini senza tradire l’organizzazione. Totò Riina, che negli anni ‘90 aveva inserito proprio l’abolizione dell’ergastolo ostativo nel papello consegnato allo Stato per far cessare le stragi, avrebbe firmato assegni in bianco pur di raggiungere questo obiettivo. Non a caso, la possibilità di accedere a permessi premio è stata colta al volo da alcuni boss di primissimo livello come Filippo Graviano, capo mafia di Brancaccio, condannato come uno dei mandanti delle stragi '92-'93, il quale sottoscrisse una dichiarazione di dissociazione senza dar seguito a una collaborazione e mantenendo rapporti con familiari e personaggi interni alle associazioni criminali. La sua speranza di ottenere permessi premio, però è stata più volte bocciata. Lo stesso non si può invece dire di altri suoi ex compari d’armi di Cosa nostra, alcuni di questi ergastolani e stragisti come Giovanni Formoso, condannato all’ergastolo per la strage di Milano del 27 luglio 1993 o Ignazio Pullarà, importantissimo capo mafia ergastolano, depositario dei segreti sui soldi che Cosa nostra riceveva ogni anno da Silvio Berlusconi che “ha pagato la mafia dagli anni ’70 fino al 1994”. Negli ultimi mesi infatti si è assistito alla scarcerazione, per decorrenza termini, di molti mafiosi. Circostanza denunciata da cittadini e giornalisti nelle sedi parlamentari.
Tornando ai pentiti di mafia. Falcone, durante uno dei suoi tanti interventi, prese posizione sull’istituto dei collaboratori di giustizia chiarendo che “senza un intervento legislativo che preveda effetti favorevoli per il 'pentito', il fenomeno della collaborazione con la giustizia degli imputati è destinato ad esaurirsi in breve tempo. Se è questo che si vuole e se si ritiene che, di fronte a una criminalità organizzata dilagante e sempre più minacciosa, lo strumento del pentitismo non rappresenti un utile mezzo di indagini istruttorie, occorre che lo si dica chiaramente affinché, perlomeno, non si generino illusioni o aspettative in coloro che, sia pure per mero tornaconto personale, avevano ritenuto ingenuamente che il loro contributo all’accertamento di gravissimi crimini sarebbe stato apprezzato, prima o poi, dal Paese”.
La volontà di distruggere l’istituto dei collaboratori di giustizia, centrale nella lotta alla mafia, rischiano di compromettere la dignità della nostra democrazia e sarebbe una dolorosa sconfitta anche per coloro che attendono ancora piena giustizia e verità sulle responsabilità gravissime delle istituzioni e della politica emerse durante il periodo stragista grazie ai collaboratori di giustizia. La collettività sarà sconfitta, mentre a vincere sarà ancora una volta lo Stato-mafia.
È inconcepibile che in un paese dove la legislazione antimafia ha fatto scuola all’Europa, i collaboratori di giustizia siano trattati con tale indifferenza e abbandono. Chi sceglie di fare una scelta di vita di questa portata, ammettendo di aver compiuto errori imperdonabili e rischiando la propria vita per contribuire alla lotta contro la mafia, merita di essere tutelato e supportato, non lasciato alla mercé di un sistema che si è rivelato inadeguato e, in molti casi, traditore. La mancanza di protezione, il depotenziamento delle leggi e l'ostilità crescente da parte delle istituzioni non fanno altro che incentivare il silenzio e la paura, allontanando chi potrebbe fare la differenza. Il rischio che si corre è che, abbandonando i collaboratori, lo Stato non solo tradisce la fiducia di chi ha scelto di parlare, ma consente alla mafia di continuare a prosperare indisturbata.
È inconcepibile che in un paese dove la legislazione antimafia ha fatto scuola all’Europa, i collaboratori di giustizia siano trattati con tale indifferenza e abbandono. Chi sceglie di fare una scelta di vita di questa portata, ammettendo di aver compiuto errori imperdonabili e rischiando la propria vita per contribuire alla lotta contro la mafia, merita di essere tutelato e supportato, non lasciato alla mercé di un sistema che si è rivelato inadeguato e, in molti casi, traditore. La mancanza di protezione, il depotenziamento delle leggi e l'ostilità crescente da parte delle istituzioni non fanno altro che incentivare il silenzio e la paura, allontanando chi potrebbe fare la differenza. Il rischio che si corre è che, abbandonando i collaboratori, lo Stato non solo tradisce la fiducia di chi ha scelto di parlare, ma consente alla mafia di continuare a prosperare indisturbata.